Recensione The Evil Within
Il nome Shinji Mikami, ai più , non evocherà chissà quali ricordi. A differenza di altri grossi nomi dell’industria videoludica come ad esempio Hideo Kojima, la creatura originale di Mikami San ha una fama così imponente da aver letteralmente affossato quella del suo creatore. Almeno in parte, visti i risultati ottenuti dagli ultimi Resident Evil. Ebbene sì: Shinji Mikami è il papà della serie Resident Evil.
Dopo aver lasciato Capcom con Resident Evil 4, Mikami ha deciso di dedicarsi ad un lavoro tutto suo che potesse sfamare i fan del survival horror e fare una sorta di rivoluzione nel genere.
Queste sono le premesse che The Evil Within ha portato con sè sin dalla sua prima presentazione. Sarà riuscito nell’intento?
Il filone della trama di The Evil Within parte in maniera rapida, apparentemente incomprensibile e leggermente anonimo.
Se dovessimo giudicare il titolo dai nastri di partenza, saremmo realmente propensi a non andare oltre, tanto è confusionario.
Saremo chiamati ad indossare i panni del detective Sebastian Castellanos, coinvolto in uno strano omicidio di massa in una clinica psichiatrica.
Da qui partirà l’orrore vero e proprio. Orrore che ci vedrà coinvolti dal punto di vista fisico e mentale.
A mettere scompiglio sembra esserci un’entità soprannaturale. Ma non avremo il tempo materiale di indagare che ci ritroveremo a testa in giù.
Tutto questo mentre un omone è intento a macellare corpi umani.
Scappare sarà la prima cosa che dovremmo fare, in una sezione che somiglia più ad un The Last of Us in salsa Mikami misto ad un Alien Isolation.
Tutto questo con la tensione a mille, ma con l’amaro di chi si aspettava di più, conoscendo il creatore.
Ma non tutto è perduto. Andando avanti con il gioco la trama ingrana il ritmo giusto, portando quindi una caratterizzazzione profonda dei personaggi e un’evoluzione della stessa a dei livelli finalmenti buoni.
È inutile negarlo, sin dalle prime fasi di gioco, The Evil Within sembra un Resident Evil 4 2.0, anche se con le dovute differenze. E questo non può che essere un bene, o almeno, inizialmente potrebbe sembrare cosi.
La trama ovviamente è quanto di più distante ci possa essere da RE, nonostante le similitudini. La farà da padrone un’atmosfera molto opprimente, un senso di incredulità continua per ciò che vedremo, e una serie di continue domande su ciò che potrebbe essere reale e ciò che potrebbe essere generato dalla nostra mente.
A tratti molto “Saw – L’enigmista”, ciò che più premerà sull’animo del giocatore non sono i salti dalla sedia, ma le scene splatter di cui il gioco abbonda. Mikami ha usato il “gore” ogni volta che ha potuto. E di questo non possiamo che essere felici.
Il gameplay della nuova creatura made in Tango Gameworks sembra riprendere, come spiegato prima, diversi generi del mondo videoludico attuale.
Con una tecnica che richiama da vicino il “trial & error”. Shinji ha voluto mescolare quelli che erano i pilastri portanti di RE4, cercando di reinventarli relativamente. Purtroppo ha fallito miseramente.
Per ciò che riguarda l’azione, saremo quasi sempre accompagnati da una buona fornitura d’armi. Anche se all’inizio, le bocche da fuoco, saranno altamente imprecise e poco efficaci. Questo non perchè saranno delle semplici pistole, ma perchè avremo bisogno di fare del crafting sulle caratteristiche del nostro personaggio.
E questo non solo sulle armi, ma su tutto ciò che riguarda sia gli armamenti che le singole caratteristiche di Sebastian.
Per poter effettuare le operazioni di Crafting, dovremo essere in una sorta di clinica psichiatrica che funge da ponte tra una dimensione ed un’altra.
All’interno di questa clinica ci basterà sederci su una sedia elettrica per poter cominciare a craftare utilizzando una bizzarra materia verde che troveremo in giro o potremo raccogliere dai cadaveri dei nostri nemici.
Ma nonostante tutto questo, molto spesso, ci scontreremo con quelli che sono inevitabilmente i problemi cardine di questa produzione.
Potenza di fuoco mal cacolata (un colpo alla testa non uccide quasi mai un nemico, e diversi nemici enormi devono essere necessariamente eliminati con una balestra che ha tutti i dardi +1, manco fosse qualcosa uscito da Harry Potter), scontri corpo a corpo quasi totalmente inutili (tre o quattro colpi li prenderemo ugualmente) e bug random che ci costringeranno a ripetere una determinata sessione per più e più volte.
Ci verrebbe da dire che l’approccio con cui affrontare The Evil Within sarebbe lo stealth, così da poter eliminare i nemici con un colpo solo e sgattaiolare via da situazioni poco sicure. Magari proprio perchè in evidente inferiorità numerica e/o con poche munizioni.
Le similitudini con The Last of Us, però, si sprecano. Sopratutto per quella malsana abitudine di gettare una bottiglia in chissà quale posto dello scenario per distrarre i nemici, e poterli cogliere di sorpresa o aggirarli. Più volte ci siamo chiesti se da quache cespuglio sarebbe mai uscita Ellie.
Tutto questo spezza in modo davvero irreparabile quella che sarebbe potuta essere una delle atmosfere più belle e lugubri della storia videoludica da qualche anno a questa parte.
A peggiorare le cose ci si mettono un sistema di checkpoint disposto in maniera assolutamente pessima, dei puzzle ambientali molto facili, e dei combattimenti con i boss poco ispirati.
I nemici sono un ibrido tra gli Zombie di Resident Evil, i Ganados del 4 e 5 capitolo e i runner di The Last of Us. Le location invece ricordano molto quelle di Silent Hill, con scenari che cambiano al nostro passaggio e atmosfere, in alcuni frangenti, assolutamente riuscite.
A gettare acqua sul fuoco, in mezzo a tutto quello che sembra un’idea sviluppata alla meno peggio, ci si mette un motore grafico non proprio ottimo. Giochi di luce a parte, il comparto tecnico è da dimenticare. Sulle versioni Next Gen il gioco soffre di cali di frame rate, e mostra delle texture quasi sempre sottotono, rispetto agli standard attuali.
Proprio per questo è assolutamente visibile la natura cross-gen della produzione, e la stessa sfigura sulle console di nuova generazione.
Un sonoro assolutamente ottimo ed un doppiaggio in Italiano degno di nota , non riescono a risollevare quella che, a nostro avviso, risulta essere la più cocente delusione dell’anno.